Da dove questo misterioso legame tra Gesù e i peccatori, che scandalizzava scribi e sacerdoti?
Ecco, allora, le tre parabole tratte da storie di vita: una pecora perduta, una moneta perduta, un figlio che se ne va e si perde. Storie di perdita, che mettono in primo piano la pena di Dio quando perde e va in cerca, ma soprattutto la sua gioia quando trova.
Ecco allora la passione del pastore.
Non è la pecora smarrita a trovare il pastore, è trovata; non sta tornando all’ovile, se ne sta allontanando; il pastore non la punisce, è viva e tanto basta.
E se la carica sulle spalle perché sia meno faticoso il ritorno.
Dio è amico della vita.
La pena di un Dio per chi ha perso una moneta, che accende la lampada e si mette a spazzare dappertutto e troverà il suo tesoro, la scoverà sotto la polvere raccolta dagli angoli più oscuri della casa. Così anche noi, sotto i graffi della vita, sotto difetti e peccati, possiamo scovare sempre, in noi e in tutti, un frammento d’oro.
Un padre che non ha figli da perdere e, se ne perde uno solo, la sua casa è vuota. Che non punta il dito e non colpevolizza i figli spariti dalla sua vista, ma li fa sentire un piccolo grande tesoro di cui ha bisogno. E corre e gli getta le braccia al collo e non gli importa niente di tutte le scuse che ha preparato, perché alla fedeltà del figlio preferisce la sua felicità.
Tutte e tre le parabole terminano con lo stesso “crescendo”.
L’ultima nota è una gioia, una contentezza, una felicità che coinvolge cielo e terra. Sono io l’amato perduto. Dio è in cerca di me. Se lo capisco, invece di fuggire correrò verso di lui.