Giovanni, vedendo Gesù venirgli incontro, dice: Ecco l’agnello di Dio.
Parole diventate così consuete nella nostra liturgia che quasi non sentiamo più il loro significato.
Un agnello non può fare paura, non ha nessun potere, è inerme, rappresenta il Dio mite e umile. Ecco l’agnello di Dio, che rende più vera la vita di tutti attraverso lo scandalo della mitezza.
Gesù-agnello, introduce qualcosa che capovolge e rivoluziona il volto di Dio: il Signore non chiede più sacrifici all’uomo, ma sacrifica se stesso; non pretende la tua vita, offre la sua; non spezza nessuno, spezza se stesso; non prende niente, dona tutto.
Ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Non «i peccati», al plurale, ma «il peccato» al singolare; non i singoli atti sbagliati che continueranno a ferirci, ma una condizione, una struttura profonda della cultura umana, fatta di violenza e di accecamento, una logica distruttiva, di morte. In una parola, il disamore.
Noi, i discepoli, siamo, allora, coloro che seguono l’agnello. Questo seguirlo non in un’ottica sacrificale, il cristianesimo non è solo immolazione, diminuzione, sofferenza. Seguirlo è amare quelli che lui amava, desiderare ciò che lui desiderava, rifiutare ciò che lui rifiutava, toccare quelli che lui toccava e come lui li toccava, con la sua delicatezza, concretezza, amorevolezza, e non avere paura, e non fare paura, e liberare dalla paura.
Allora, sì, lo seguiamo davvero, impegnati con lui a togliere via il peccato del mondo, a togliere respiro e terreno al male, ad opporci alla logica sbagliata del mondo.
Ecco vi mando come agnelli… vi mando a togliere, con mitezza, il male: braccia aperte donate da Dio al mondo, braccia di un Dio agnello, inerme eppure forte.